To accept oneself as something completely unfathomable and unknowable, not conformable to any precise axiom of intellectual or religious derivation, means to remain suspended in the void being empty. Impossible to see the boundaries of one's being.
This lack of identification in any structural form (of thought or otherwise) is at the same time also the "strength" of spiritual secularism. There are no safe ports of call, there is no boat, there is no sea, no one and nothing to look for ... only the current of life, of conscience, only the sense of being present. In this lack of conditions it is possible to feel our self surrendering, our mind melting away, thus discovering the center that is not a center because it is all that it is.
This, it seems to me, is also the experience described in the Buddhist history of Mahakashyapa's encounter with the Buddha. It happened that Mahakashyapa approached the Buddha and from these he was simply touched, nothing more, no education, no glance, a trivial touch, perhaps unnoticed, a light shuffle as can occur between two people who meet. Yet at that precise moment Mahakashyapa became aware of himself, of his perennial presence in himself, at the contact of such a wonder he simply began to dance. How would a drunk or a madman do? In fact even a madman is only conscious of his reality, ignoring that of the world, but in the madman contingency and speculation still exist, the world for him is "different" is not how others perceive it but "his personal world" like him imagine continues to exist ... And this is the inner difference between a so-called "madman" and Mahakashyapa. From the point of view of the external observer - though - the reaction can be the same. And so also appeared in the eyes of Ananda, the faithful disciple of the Buddha. Ananda complained to the Buddha, saying, "What is this? Perhaps he is a madman, perhaps he had a profound experience, but it is the first time that he sees you, how is it possible that he was so impressed? I have lived for forty years together with you and I touched your feet with devotion countless times, yet none of this has ever happened to me .. ".
The Buddha did not answer, he could not answer Ananda's question, because Ananda himself was his own and precise obstacle to achieving Awareness. The fact is that Ananda was the elder brother of the Buddha (some say he was the cousin - ed) and when he introduced himself to him to be initiated he asked him: "I am your elder brother, before accepting to become your disciple I ask you a please, because afterwards I could no longer do it, I ask you to always be in your presence, to be able to sleep in your own room and to be able to introduce any person at any time without you being able to say - now is not the time for me to speak with this person - promise me this before accepting me as a follower. " The Buddha agreed and this was the constant impediment of Ananda to reach awareness, evidently it was his destiny, and in fact it was realized only after the Buddha left the body.
In truth, Ananda could at any time renounce his pre-conditions, he could have been light and out of any "context" just as Mahakashyapa had been, but this was not possible and it is right that it should be so because he could do so. his destiny in an exemplary way, as happens to each of us. To tell the truth, it is not necessary for each of us to conform to a model or to conform to a hypothetical ideal, this is not the purpose of secular spirituality, but rather that of letting go and being whatever one is, without placing conditions of arose, it is enough to be what we are, and to be consciously and lovingly.
I wrote this story thinking of a speech I made with a friend about "what to do" to be yourself ... We can think of "doing" something if in any case it was possible for us to change what we are, but is this possible? Can we change ourselves? Apparently, through our own compliance with natural internal drives, we can change what are the outward forms of our manifesting ourselves, but how can we change the intrinsic reality of consciousness that we are always and in any case?
Paolo D'Arpini
Testo italiano:
Più volte ho parlato della Spiritualità Laica come di una via in cui non possono esserci dogmi o indicazioni religiose. Questa è la via in cui non si segue nessuna via. Il percorso è completamente assente, nella spiritualità laica ciò che conta è la semplice presenza a se stessi e questo non può essere un percorso ma una semplice attenzione allo stato in cui si è. La coscienza è consapevole della coscienza.
Accettare se stessi come qualcosa di completamente insondabile ed inconoscibile, non conformabile ad alcun preciso assioma di derivazione intellettuale o religiosa, significa restare sospesi nel vuoto essendo vuoto. Impossibile poter scorgere i confini del proprio essere.
Questa mancanza di identificazione in qualsiasi forma strutturale (di pensiero e non) è contemporaneamente anche la "forza" della laicità spirituale. Non vi sono porti sicuri di approdo, non vi è barca, non c’è un mare, nessuno e nulla da ricercare… solo la corrente della vita, della coscienza, solo il senso di essere presenti. In questa mancanza di condizioni è possibile sentire il nostro io arrendersi, la nostra mente sciogliersi, scoprendo così il centro che non è un centro perché è tutto ciò che è.
Questa, mi sembra, è anche l’esperienza descritta nella storia buddhista dell’incontro di Mahakashyapa con il Buddha. Avvenne che Mahakashyapa si avvicinasse al Buddha e da questi semplicemente fu toccato, nulla di più, nessuna istruzione, nessuno sguardo, un banale tocco, forse inavvertito, uno struscio leggero come può avvenire fra due persone che si incontrano. Eppure in quel momento preciso Mahakashyapa divenne consapevole di se stesso, della sua perenne presenza in se stesso, al contatto di tale meraviglia si mise semplicemente a danzare. Come farebbe un ubriaco od un matto. Infatti anche un matto è solo cosciente della sua realtà, ignorando quella del mondo, ma nel matto esiste ancora contingenza e speculazione, il mondo per lui è "diverso" non è come gli altri lo percepiscono ma il "suo mondo personale" come lui lo immagina continua ad esistere…. E questa è la differenza interiore fra un cosiddetto "matto" e Mahakashyapa. Dal punto di vista dell’osservatore esterno –però- la reazione può essere la stessa. E così apparve anche agli occhi di Ananda, il fedele discepolo del Buddha. Ananda si lamentò con il Buddha dicendogli: "Cos’è questo? Forse è un pazzo, forse ha avuto una profonda esperienza, ma è la prima volta che egli ti vede, com’è possibile che sia stato così colpito? Io son vissuto per quaranta anni assieme a te ed ho toccato i tuoi piedi con devozione innumerevoli volte, eppure nulla di tutto ciò mi è mai accaduto..".
Il Buddha non rispose, non poteva rispondere alla domanda di Ananda, perché Ananda stesso era il suo proprio e preciso ostacolo al raggiungimento della Consapevolezza. Il fatto è che Ananda era il fratello maggiore del Buddha (alcuni dicono che fosse il cugino – n.d.r.) e quando si presentò a lui per essere iniziato gli chiese: "Io sono tuo fratello maggiore, prima di accettare di divenire tuo discepolo ti chiedo un favore, poiché dopo non potrei più farlo, ti chiedo di poter stare sempre alla tua presenza, di poter dormire nella tua stessa stanza e di poter introdurti qualsiasi persona in qualsiasi momento senza che tu possa dire –ora non è il momento per me di parlare con questa persona- promettimi questo prima di accettarmi come seguace". Il Buddha acconsentì e questo fu il costante impedimento di Ananda a raggiungere la Consapevolezza, evidentemente era il suo destino, ed infatti si realizzò solo dopo che il Buddha lasciò il corpo.
In verità Ananda avrebbe potuto in ogni momento rinunciare alle sue pre-condizioni, avrebbe potuto essere leggero e fuori da ogni "contesto" proprio come lo era stato Mahakashyapa ma la cosa non fu possibile ed è giusto che sia così poiché in tal modo poté svolgere il suo destino in modo esemplare, come avviene ad ognuno di noi. A dire il vero, non è necessario che ognuno di noi si uniformi ad un modello o si conformi ad un ipotetico ideale, non è questo lo scopo della spiritualità laica, bensì quello di lasciarsi andare ed essere qualsiasi cosa si è, senza porre condizioni di sorta, basta essere ciò che siamo, ed esserlo coscientemente e amorevolmente.
Ho scritto questa storia pensando ad un discorso da me fatto con un'amica al proposito del "cosa fare" per essere se stessi… Possiamo pensare di "fare" un qualcosa se in ogni caso fosse possibile per noi modificare quel che noi siamo, ma è possibile ciò? Possiamo noi cambiare noi stessi? Apparentemente, attraverso il nostro stesso accondiscendere alle naturali pulsioni interne, possiamo modificare quelle che sono le forme esteriori del nostro manifestarci, ma come possiamo cambiare l’intrinseca realtà della coscienza che sempre e comunque siamo?
Questa, mi sembra, è anche l’esperienza descritta nella storia buddhista dell’incontro di Mahakashyapa con il Buddha. Avvenne che Mahakashyapa si avvicinasse al Buddha e da questi semplicemente fu toccato, nulla di più, nessuna istruzione, nessuno sguardo, un banale tocco, forse inavvertito, uno struscio leggero come può avvenire fra due persone che si incontrano. Eppure in quel momento preciso Mahakashyapa divenne consapevole di se stesso, della sua perenne presenza in se stesso, al contatto di tale meraviglia si mise semplicemente a danzare. Come farebbe un ubriaco od un matto. Infatti anche un matto è solo cosciente della sua realtà, ignorando quella del mondo, ma nel matto esiste ancora contingenza e speculazione, il mondo per lui è "diverso" non è come gli altri lo percepiscono ma il "suo mondo personale" come lui lo immagina continua ad esistere…. E questa è la differenza interiore fra un cosiddetto "matto" e Mahakashyapa. Dal punto di vista dell’osservatore esterno –però- la reazione può essere la stessa. E così apparve anche agli occhi di Ananda, il fedele discepolo del Buddha. Ananda si lamentò con il Buddha dicendogli: "Cos’è questo? Forse è un pazzo, forse ha avuto una profonda esperienza, ma è la prima volta che egli ti vede, com’è possibile che sia stato così colpito? Io son vissuto per quaranta anni assieme a te ed ho toccato i tuoi piedi con devozione innumerevoli volte, eppure nulla di tutto ciò mi è mai accaduto..".
Il Buddha non rispose, non poteva rispondere alla domanda di Ananda, perché Ananda stesso era il suo proprio e preciso ostacolo al raggiungimento della Consapevolezza. Il fatto è che Ananda era il fratello maggiore del Buddha (alcuni dicono che fosse il cugino – n.d.r.) e quando si presentò a lui per essere iniziato gli chiese: "Io sono tuo fratello maggiore, prima di accettare di divenire tuo discepolo ti chiedo un favore, poiché dopo non potrei più farlo, ti chiedo di poter stare sempre alla tua presenza, di poter dormire nella tua stessa stanza e di poter introdurti qualsiasi persona in qualsiasi momento senza che tu possa dire –ora non è il momento per me di parlare con questa persona- promettimi questo prima di accettarmi come seguace". Il Buddha acconsentì e questo fu il costante impedimento di Ananda a raggiungere la Consapevolezza, evidentemente era il suo destino, ed infatti si realizzò solo dopo che il Buddha lasciò il corpo.
In verità Ananda avrebbe potuto in ogni momento rinunciare alle sue pre-condizioni, avrebbe potuto essere leggero e fuori da ogni "contesto" proprio come lo era stato Mahakashyapa ma la cosa non fu possibile ed è giusto che sia così poiché in tal modo poté svolgere il suo destino in modo esemplare, come avviene ad ognuno di noi. A dire il vero, non è necessario che ognuno di noi si uniformi ad un modello o si conformi ad un ipotetico ideale, non è questo lo scopo della spiritualità laica, bensì quello di lasciarsi andare ed essere qualsiasi cosa si è, senza porre condizioni di sorta, basta essere ciò che siamo, ed esserlo coscientemente e amorevolmente.
Ho scritto questa storia pensando ad un discorso da me fatto con un'amica al proposito del "cosa fare" per essere se stessi… Possiamo pensare di "fare" un qualcosa se in ogni caso fosse possibile per noi modificare quel che noi siamo, ma è possibile ciò? Possiamo noi cambiare noi stessi? Apparentemente, attraverso il nostro stesso accondiscendere alle naturali pulsioni interne, possiamo modificare quelle che sono le forme esteriori del nostro manifestarci, ma come possiamo cambiare l’intrinseca realtà della coscienza che sempre e comunque siamo?
Paolo D’Arpini
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