Some believe that spiritual practice is a sort of "occupation" like that of a student or worker who must perform specific tasks to "obtain" enlightenment or at least awakening. This "voluntaristic" attitude often creates expectations and from the spiritual point of view even distances oneself from true knowledge, since one fixes oneself on the medium without looking at the subject who wants to reach knowledge.
The subject in truth is our own Self but we ignore it and make it an "object" to be pursued. And that "object" is our ego - as Ramana Maharshi said - which disguises itself as a policeman to look for the thief that he himself is.
About this "game" I remember the sentence pronounced by King Janaka who, after listening to and understanding the nondualistic teaching given to him by his guru Vasishta, exclaimed: "Now I understand who the thief is and I will fix him immediately" (referring to the tendency identifier with the body-mind that believes it is performing the action).
In short, the enthusiasm in carrying out the so-called religious "duty" and the compulsion to practice in order to obtain results through will and penance, can procure forms of dependence and "spiritual" illusion and is a deviation from sincere inner research.
This happens when one joins a sect, when one adheres to a religion and relies on the indications of a hypothetical "savior". It seems that some people need to feel "rooted" and framed in a compact group (often it happens with Christians and Mohammedans, and similar faiths), especially if they are experiencing moments of emotional or other emptiness (worldly concerns, sense of lack or inadequacy, etc.).
But openly opposing or denigrating the choices made by such people does not help them to understand the cause of their need to fill a hole, which lies in their inability to accept themselves for who they are without thinking that they want to forcibly change the state of things. or one's condition as a function of a hypothetical “other” achievement.
Accepting oneself alone can interrupt the mechanism of desire and fear, because by accepting one understands the situation experienced in its entirety and the appropriate action arises spontaneously. But acceptance is sometimes also painful. This concerns each of us who live in the world. But by living consciously in the world one can understand the nature of the world and of consciousness.
However, one cannot define or impart a universal "cure" for the various anomalies of interpretation of one's reality, saying "do this or do that". Sometimes we also need to get lost in order to find ourselves again. Everyone must be able to grow in his own way.
To develop inner clarity it takes discrimination and detachment. The self-investigation recommended by Ramana Maharshi or Nisargadatta Maharaj is the most direct way to identify the "thief" who robs us of Awareness (dragging us into the world of thought and speculation).
Even fixing the attention on a formula, such as the koans on the Zen path (in which the neophyte is asked to answer questions that cannot reasonably be answered) can definitely help, as can the careful repetition of a mantra. But the mantra should not be considered a way to develop the will or the ability to obtain mental powers or well-being, on the contrary it serves to dissolve any supposition of power and identification with mental states. The mantra to carry out its function must be alive, imparted by the one who has realized the nature of him, which is the Self. The repetition of the mantra is a personal matter and should be practiced during the day, mentally, to center on the Self (on Awareness). I myself use this simple method that requires no other help than remembrance and attention paid to the Self. in this abandonment and in this surrender to one's Self, love arises, and the understanding of what we really are, beyond form and thought.
Paolo D’Arpini
Testo Italiano
Taluni ritengono che la pratica spirituale sia una sorta di “occupazione” come quella di uno studente o di un lavoratore che deve espletare specifici compiti per “ottenere” l’illuminazione o perlomeno il risveglio. Questo atteggiamento “volontaristico” crea spesso aspettative e dal punto di vista spirituale addirittura allontana dalla vera conoscenza, poiché ci si fissa sul mezzo senza guardare il soggetto che vuole raggiungere la conoscenza.
Il soggetto in verità è il nostro stesso Sé ma noi lo ignoriamo e lo rendiamo un “oggetto” da perseguire. E quell’ “oggetto” è il nostro ego -come diceva Ramana Maharshi- che si traveste da poliziotto per cercare il ladro che egli stesso è.
A proposito di questo “gioco” ricordo la frase pronunciata dal re Janaka che, dopo aver ascoltato e compreso l’insegnamento nondualistico impartitogli dal suo guru Vasishta, esclamò: “Ora ho compreso chi è il ladro e lo sistemerò immediatamente” (riferendosi alla tendenza identificatrice con il corpo mente che ritiene di compiere l’azione).
Insomma la foga nello svolgere il cosiddetto “dovere” religioso e la compulsione a praticare per ottenere risultati attraverso la volontà e la penitenza, può procurare forme di dipendenza e di illusione “spirituale” ed è una devianza rispetto alla sincera ricerca interiore.
Questo avviene quando ci si lega ad una setta, quando si aderisce ad una religione e ci si affida alle indicazioni di un ipotetico “salvatore”. Sembra che alcune persone abbiano bisogno di sentirsi “radicate” e affratellate in un gruppo compatto (spesso succede con i cristiani ed i maomettani, e simili fedi), soprattutto se stanno vivendo momenti di vuoto affettivo o di altro genere (preoccupazioni mondane, senso di mancanza o inadeguatezza, etc.).
Però mettersi contro apertamente o denigrare le scelte compiute da tali persone non le aiuta a comprendere la causa del loro bisogno di riempire un buco, che risiede nella loro incapacità di accettare se stessi per quel che sono senza pensare di voler forzatamente modificare lo stato di cose o la propria condizione in funzione di un ipotetico ottenimento “altro”.
L’accettarsi soltanto può interrompere il meccanismo del desiderio e della paura, perché accettando si comprende la situazione vissuta nella sua interezza e l’azione confacente sorge spontanea. Ma l’accettazione talvolta è anche dolorosa. Questo riguarda ognuno di noi che vive nel mondo. Ma vivendo consapevolmente nel mondo si può comprendere la natura del mondo e della coscienza.
Comunque non si può definire od impartire una “cura” universale per le diverse anomalie di interpretazione della propria realtà, dicendo “fai questo o fai quello”. A volte abbiamo anche bisogno di perderci per poi ritrovarci. Ognuno deve poter crescere a modo suo.
Per sviluppare la chiarezza interiore ci vuole discriminazione e distacco. L’autoindagine consigliata da Ramana Maharshi o da Nisargadatta Maharaj è la via più diretta per individuare il “ladro” che ci deruba della Consapevolezza (trascinandoci nel mondo del pensiero e della speculazione).
Anche il fissare l’attenzione su una formula, come i koan nel sentiero zen (in cui si chiede al neofita di rispondere a domande che ragionevolmente non possono avere risposta) può decisamente aiutare, come pure l’attenta ripetizione di un mantra. Ma il mantra non va considerato un modo per sviluppare la volontà o la capacità di ottenere poteri mentali o benessere, serve al contrario a sciogliere ogni supposizione di potere e di identificazione con gli stati mentali. Il mantra per svolgere la sua funzione deve essere vivo, impartito da chi ha realizzato la sua natura, che è il Sé. La ripetizione del mantra è un fatto personale e andrebbe praticata durante l’arco della giornata, mentalmente, per centrarsi sul Sé (sulla Consapevolezza). Io stesso uso questo metodo semplice che non richiede altri aiuti se non la rimembranza e l’attenzione rivolta al Sé. in questo abbandono ed in questo arrendersi al proprio Sé sorge l’amore, e la comprensione di ciò che realmente noi siamo, aldilà della forma e del pensiero.
Paolo D’Arpini
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